Introduzione di Giorgio Rossi
Leggerezza versus pesantezza. A posteriori non è stata cosa del tutto leggera il mio convivere, sin dalla più tenera età con l’handicap mentale/fisico più o meno grave, credo che abbia orientato la mia sensibilità, quale essa sia. Mi ha insegnato a vedere quello che forse altri non vedono e rispettare. Mio fratello era così, speciale. Avevo 13 anni quando nel 1963 i miei, insieme ad altri genitori di figli variamente speciali, fondarono l’istituto Raggio di Sole.
A quei tempi, finita a 16 anni della scuola dell’obbligo, i figli speciali si tenevano in casa o si internavano in un ospedale psichiatrico. Se qualcuno ha letto di manicomi, di “pazzi” legati con la camicia di forza ai termosifoni, beh è successo davvero, non era una leggenda metropolitana.
La consapevolezza che i figli sarebbero finiti ben presto in manicomio e ci sarebbero restati tutta la vita, spinse dunque genitori speciali, di figli speciali, a inventarsi qualcosa di diverso, di umano, una struttura pervasa dal sorriso, con il vivo desiderio normalità, di integrazione sociale, difficile da realizzare se non credendoci e volendolo fermissimamente.
Passai non pochi w-e e festività a Raggio di Sole, mescolandomi e giocando con gli altri.
Dunque da moltissimi anni mi sono chiesto se argomenti pesanti possano essere affrontati con leggerezza. Mi sono dato la mia risposta. Talvolta sì, spesso sì, ed è un bene, altre volte per varie ragioni non è possibile.
Tuttavia ci si abitua all’insopportabile. Sulle prime si tende a drammatizzare tutto, anche a ragione eh, ma ben presto tutto rischia di diventarci indifferente, ci scivola da addosso. La stessa documentazione di emergenze climatiche, di pandemie, di guerre, di eccidi, di femminicidi e discriminazioni razziali e sessuali, tutto rischia diventa inutile, irrilevante, alla fin fine fastidioso, voltiamo la testa dall’altra parte, sino a diventare negazionisti.
Sta a noi scegliere se diventare aridi o se continuare a coltivare, come possibile speranza, il sorriso. Ho scelto per me una discreta dose di relativismo etico.
La fotografia, da sempre, è lo specchio preciso del sociale che viviamo e di come lo viviamo. I discorsi sulla fotografia ruotano intorno a una esile manciata di argomenti, luoghi comuni ripetuti allo sfinimento. B/N (o B&W che fa più figo) o colore? Analogico o digitale? Sono importanti i like per vivere felici? La fotografia deve essere consapevole? La Street Photography esiste?
Guru che ci ripetono lapidarie esternazioni di celeberrimi Maestri della fotografia del tempo che fu. “Non c’è niente di peggio di un’immagine nitida di un concetto sfuocato”… “Fotografare vuol dire mettere sulla stessa linea di mira la mente, l’occhio e il cuore”. Ci ho provato e sono rimasto intorcinato a tal punto da dover ricorrere a un fisioterapista. Punctum!
Ero sul punto di convincermi di essere stranino, solo con i miei pensieri sbilenchi a lottare contro la banalità, contro il già mille volte detto o sentito dire, sino a quando, grazie ai social, ho incontrato altre persone, spesso interessate alla fotografia. Ho di conseguenza capito di essere diversamente normale, come molti altri. Tra queste persone c’è l’ormai da anni amico, Fabio Campo al quale cedo ben volentieri la parola.
3 luglio 2022
LO ZEN E L’ARTE DEL TORMENTONE FOTOGRAFICO
(per Giorgio Rossi e NOC SENSEI)
Quando mi chiedono perché mi piaccia fotografare faccio sempre abbastanza fatica a rispondere. È un po’ come se mi chiedessero perché mi piaccia dormire o respirare. Questo perché faccio foto ormai da davvero tanti tanti anni che ormai è diventata un’attività naturale, di routine. Ho cominciato da adolescente con una 6X6, a seguire le analogiche 35mm e naturalmente le digitali, reflex e mirrorless. Ho fatto foto di tanti tipi e generi, a colori, in bianco e nero, diapositive, dritte, storte, in formato paesaggio e ritratto, ne ho fatte alcune belle e tante ne ho sbagliate. E se per certi periodi non ho fatto foto è perché avevo comunque in mano una videocamera.
Se mi è difficile dire perché mi piaccia fotografare posso invece riflettere su alcune costanti. Ad esempio nella fotografia preferisco di gran lunga il momento prima dello scatto, quello in cui si inquadra. Ovviamente non è che non mi interessi il risultato dello scatto ma anche se viene fuori qualcosa di inguardabile, resta il piccolo piacere del gesto. Questo spiega anche la particolare passione che ho nel fare autoscatti: la concentrazione sulla preparazione del click finale.
Aggiungo, nella “filosofia” della foto, che considero spesso l’immagine fotografica come una istantanea di qualcosa che era in movimento. Nell’osservare una fotografia, che sia la mia o meno, mi piace immaginare cosa è accaduto subito prima e cosa accadrà subito dopo, come se fosse il fermo immagine di un film, e se la foto non si presta a questo esercizio, allora immagino di essere il fotografo che l’ha scattata, il suo occhio, i motivi di quello scatto.
Nello scorrere le foto che ho fatto posso dire, a grandi linee, che 9 su 10 sono foto di famiglia o personali. Sono soprattutto scatti di vita quotidiana che mi piace conservare e che mi servono a ricordare momenti ed emozioni. Nelle restanti 1 su 10 ci sono tutte le altre foto, quelle che ho fatto nel tentativo di raccontare il mio lavoro a scuola, quelle che raccontano i luoghi e i momenti in cui vivo o in cui viaggio, quelle per documentare le attività di un’organizzazione umanitaria in India, di cui sono volontario, eccetera eccetera.
Poiché apprezzo una certa “leggerezza” in fotografia mi è capitato di usare la macchina fotografica per divertirmi e eventualmente divertire qualcun altro oltre me. Sono nati così alcuni “progetti”, tra virgolette, che hanno la caratteristica principale di essere dei tormentoni. Ho coinvolto la mia compagna in una serie che la vede andare da qualche parte, ho coinvolto i colleghi di scuola per fotomontaggi un po’ irriverenti sulle problematiche delle pessime riforme scolastiche degli ultimi anni, ho coinvolto amici fotografi per sorridere di una certa “pesantezza” del dibattito sui grandi temi della fotografia, analogico o digitale, bianco e nero o a colori, per capirci.
Ed è proprio di alcuni di questi tormentoni che vi voglio parlare, anzi voglio proprio raccontarvi tutta la storia dall’inizio. Ma prima vorrei umilmente farvi sapere che mi è capitato talvolta di fare foto “serie” e alcune perfino belle.
Un giorno, un fine pomeriggio nella valle dei templi di Bagan in Myanmar, mentre ero intento a girare le rotelline della macchina fotografica per sottoesporre un tramonto col quale avrei acchiappato dei like, mi apparve Lui, sul piccolo schermo LCD si materializzò il Grande Maestro Me Medesimo. “Ma ancora con questi tramonti te ne vai in giro?” furono le sue prime parole. Al mio sbigottimento aggiunse “Se seguirai i miei principi fotografici potrai vedere la Luce in fondo al tunnel della fotografia”. E la Luce fu. Nel suo primo precetto mi disse di trovare dentro di me quale genere preferire e che se facevo la “strit” comunque i like si acchiappano alla grande. Io cercai e cercai dentro di me ma per la “strit” avevo paura della reazione delle persone per strada, metti che mi prendano a mazzate… E fu fuori di me che trovai la risposta, anzi accanto. Era Claudine, la mia compagna, sempre pronta a esaudire i miei desideri così sto tranquillo e non rompo troppo. E così iniziai la serie “Claudine va quelque part” che mi permetteva di immortalare luoghi e situazioni, di studiare l’inquadratura adatta e soprattutto di usare la raffica, che fa molto figo. In un’altra occasione il Maestro mi disse che, essendo io maestro, anche se solo elementare e non Grande, avrei potuto diffondere il suo verbo nella scuola. Detto fatto, cominciai la serie “dove lavoro” per raccontare la dura vita quotidiana a contatto di imprevedibili piccoli ignoranti.
Da quel primo incontro non ho più smesso di seguire i precetti del Grande Maestro Me Medesimo sui grandi temi dell’umanità, tra i quali il grave problema che in Salento si chiami calzone il panzerotto.
29/06/2022